Freaks! Sottotitoli in crowdsourcing: chiamata alle armi!

Intro, spiegone, e ringraziamenti:

Freaks! Una figata, no?

Un gruppo di ragazzi che a Roma si ritrovano assieme – e fino a qua la descrizione è univoca – per dare vita probabilmente alla web series italiana di più grande successo mai realizzata finora, recita la vita vera, o coinvolti in un casino più grande di loro, ognuno dotato di un superpotere, e braccati da un misterioso uomo senza faccia, nella storia che di cui siamo tutti invasati – e aspettiamo pure la terza serie.

Siccome però ho una gravissima forma di deformazione professionale (insegno italiano all’estero) che mi impedisce palesemente di vivere tranquillo godendomi la mia vita privata e le mie serie, dal primo momento che ho visto Freaks! ho pensato sarebbe stato geniale usarlo in classe, vedendoci enormi possibilità di utilizzo linguistico e comunicativo: è un prodotto superitaliano e che non offre la classica versione stereotipata del nostro paese spesso venduta all’estero, la storia è palesemente fica, la lingua parlata è spontanea e quotidiana…insomma avete capito.

Fatto sta che per lavorarci su sarebbe utile avere i dialoghi! Che parti posso usare per insegnare il presente dei verbi? E il passato? C’è vocabolario ricorrente? E così via. La prima cosa che viene in mente è quella di sfruttare i sottotitoli, che purtroppo però in Italiano non ci sono! E qui entra in scena il crowdsourcing e l’idea di chiedere aiuto alla rete, così che con un paio di frasette trascritte per ciascuno ce la caviamo in poco tempo.
La piattaforma scelta è Amara, che ci permette questo lavoro collettivo rendendolo facilissimo anche a chi di sottotitoli non se n’è mai occupato, e alla fine il risultato rimane in comune e a disposizione di tutti. Ci state?

Ce sta pure Claudio!

Abbiamo pure la benedizione di Claudio Di Biagio, autore e attore (Silvio) di Freaks, che contattato a proposito dell’idea ha risposto entusiasticamente e ci aiuta con la chiamata alle armi di volontari per questo progetto! Che volete di più?

Di seguito un brevissimo tutorial di 3 immagini su come si usa amara, e poi i link agli episodi, già caricati su amara, basta cliccarci e mettersi a trascrivere.

Ringrazio in anticipo tutti quelli che collaboreranno: grazie raga’! Fatemi avere i nomi (o i nick), che verranno pubblicamente ringraziati, in imperitura memoria.

Amara: il tutorial.

Quando cliccate su uno degli episodi sotto, venite reindirizzati su amara.org, sull’episodio di freaks pre-caricato e pronto per essere sottotitolato. Fatto? (art attack style…)

Sotto il video cliccate su “Italian”, e dal menù scegliete “Improve these Subtitles”:

amara-tutorial-3

Amara vi chiede quindi di registrarvi, ma potete usare un profilo google, fb, twitter, etc per velocizzare il tutto. Io ho fatto con twitter, per dire. Vi comparirà una finestra come questa, con Amara che vi spiega le funzioni base (play-stop del video, dove trascrivere, etc):

amara-tutorial

Fondamentalmente dovete solo trascrivere riga dopo riga quello che sentite, senza preoccuparvi della sincronizzazione, che Amara ci fa fare in un secondo momento. Mi raccomando ogni tanto ricordatevi di salvare la bozza (save draft, in alto a dx).
Per ora ci servono tutti i dialoghi. Se vi invasate e finite di trascrivere un episodio completo segnalatemelo per favore sui commenti qua sotto o sulle note in basso a destra di amara, così che aggiungo una nota affianco al link dell’episodio, come per l’episodio 1, tutto trascritto da me

Daje de sottotitoli!

Mi pare di aver detto tutto, quindi ecco qui sotto i link con gli episodi:

Stagione 1:

S1-E1 – Freaks  – trascritto

S1-E2 – Blackout

S1-E3 – Blacked out

S1-E4 – Powerful

S1-E5 – “What if…”

S1-E6 – Trick

S1-E7 – …or treat

S1-E8 – Exit

Stagione 2:

Un attimo, ora li aggiungo.

#inItaliano!

Marylin Manson, Graffi e Scalise, Roman Jakobson, la funzione poetica e metalinguistica.

Mettendomi al lavoro, apro il mio quaderno di appunti, e trovo una nota fatta qualche tempo fa rileggendo il caro vecchio Graffi Scalise (Se siete completamente digiuni di linguistica generale e volete farvi un’idea è il manuale che potrebbe fare per voi. Io ho iniziato da lì, quando non ne sapevo davvero nulla.) che mi ha fatto ritornare su quanto scritto ieri.

Leggevo delle funzioni del linguaggio descritte da Roman Jakobson, in particolare della funzione metalinguistica e quella poetica.
La funzione metalinguistica è quella in cui si usa il codice per parlare del codice stesso, cioè si descrive la lingua con la lingua. È quella competenza fondamentale che si sviluppa mentre si impara un’altra lingua, che ci permette di fare parallelismi tra la nostra lingua madre e e quella che stiamo imparando. Dire, per esempio, che “disposable” in italiano si dice “usa e getta” e in francese “jetable” è dotare il nostro messaggio di una forte componente metalinguistica. Lo sviluppo di tale competenza, ve ne renderete ben conto, va di pari passo con l’acquisire un altra lingua, ed è proprio quella competenza che ci fa dire che imparata una lingua, e poi un’altra, e magari un po’ di un’altra, beh quelle dopo sono più facili. Sono più facili perché abbiamo sviluppato nel frattempo una competenza metalinguistica grossa così, e quindi non ci fa paura più (quasi) niente.

La funzione poetica, invece, e cito Graffi Scalise:

è forse la più complessa. Secondo Jakobson si realizza la funzione poetica  quando il messaggio che il parlante invia all’ascoltatore è costruito in modo tale da costringere l’ascoltatore a ritornare sul messaggio stesso per apprezzarne il modo in cui è formulato (per la scelta dei suoni, delle parole, dei giri di frase, ecc.).

Ritornare sul messaggio è quello che facciamo sempre quando stiamo imparando un’altra lingua. Tutto è importante per noi, ogni singola espressione, parola, uso contestuale rappresenta per noi una miniera d’oro linguistica, anche se stiamo soltanto ascoltando come si ordina il prosciutto cotto o come si presentano due persone. Perché è così che impariamo.
I miei appunti mi segnalano proprio questa riflessione: come cioè lo sviluppo di competenza metalinguistica sia potenzialmente facilitata dall’esposizione ad un messaggio che veicoli una forte funzione poetica. Questo non significa che bisogna necessariamente mettersi a leggere poesia eh. Se vi piace fate pure, ma i punti principali sono a mio avviso più generali, e cioè

  • cercare di semplificare il messaggio da un punto di vista grammaticale (foreigner talk) ad uno straniero che impara non serve a granché, anzi.
  • è molto più efficace per chi impara esporsi a messaggi anche complessi ma significativi, unendo la forte motivazione che ci viene dall’interesse a decifrare quelle frasi con la loro complessità semantica. Attraverso la complessità semantica, cioè di significato, saremo costretti ad analizzare più da vicino quel messaggio, ricordandone meglio così la struttura.

(Che poi non l’ho detto io. Riporto solamente l’ottimo Cardona, a pagina 94-95, che nei circoli accademici gode di maggiore stima rispetto al sottoscritto e quindi ve lo vendete meglio.)

Riducendo i paroloni all’osso, ciò significa che è inutile ammazzarsi di grammatica (struttura) di per sé, e che le nostre energie sono molto meglio spese se ci esponiamo a cose che ci piacciono e ci interessano (fidanzarsi in un’altra lingua è sempre un’ottima idea, da un punto di vista strettamente glottodidattico. Questo invece potete dire che l’ho detto io.).
Da qui il collegamento a Marylin Manson, sulla scorta di quanto raccontato ieri, che cito:

Fu in quell’ultima occasione però che mi ritrovai pronto a ritenere quell’informazione, creando quei collegamenti tra il concetto di usa e getta e il significato figurato che Marylin Manson gli aveva attribuito, rendendolo così più saliente, più profondo e e più complesso, perfetto per lasciare il segno.

Se poi vi piace il discorso canzoni/apprendimento linguistico vi segnalo che anche questa cosa che ho scritto (ero sobrio, giuro) ispirato da un concerto di Brunori SAS.

Buon ferragosto!

Storia personale di una parola: “disposable”.

Ieri sera si parlava di fotografie con Céleste.

– Non le sopporto le macchine digitali, i selfie, il fatto che la gente le guarda e le rifà mille volte. Preferivo il vecchio stile, quando facevi la foto e basta. Penso che comprerò una…una…una di quelle che poi butti via…

– Usa e getta. Una macchina fotografica usa e getta.

– Ok! Usa e getta! Grazie!

E così mi sono ricordato che “disposable”, “usa e getta” in inglese, è probabilmente una delle prime parole che ho imparato durante il mio primo e linguisticamente fondamentale soggiorno in USA.

Partito dall’Italia l’8 agosto 2001, era probabilmente il 9 o il 10. Eravamo a Lakeland College, vicino a Sheboygan, Wisconsin, per qualche giorno di orientation prima di andare in famiglia. Stavo esplorando il campus quando trovai il negozio interno del college, con tutto il merchandising del caso: magliette, felpe, tazze, penne, matite, tutto ancora molto lontano dall’esperienza di un 17enne italiano nel 2001, roba da americani. Mentre pensavo “Questi vivono davvero come nei film!”, mi venne in mente che poteva essere una buona idea procurarmi una macchina fotografica usa e getta (eravamo ancora agli albori del digitale popolare), ma non sapevo come chiederla alla commessa. Non ricordo il giro di parole, anche perché il mio inglese all’epoca era davvero rudimentale, ma credo di aver accrocchiato assieme una versione simile seppur molto meno raffinata del tentativo di Céleste. Fatto sta che la commessa capì e mi disse, prendendomela e porgendomela:

Ah ok! A disposable camera!

A disposable camera! Esatto! Disposable! Come i “Disposable teens” di Marylin Manson che avevo ascoltato in treno con mio cugino, andando a scuola la mattina. Ne ricordavo il titolo ma non sapevo cosa volesse dire. Teenagers usa e getta. Interessante, pensai.
E fu così che da quel giorno la parola “disposable” entrò ufficialmente a far parte del mio repertorio potenziale in lingua inglese. Fu quell’ignara commessa dello store di Lakeland College, in quell’agosto del 2001, a farmi fare una copia del suo file linguistico, così che ogni volta che uso la parola “disposable” lo devo a lei. Forse un po’ anche a mio cugino e a Marylin Manson, che in qualche modo avevano preparato il terreno. Fu in quell’ultima occasione però che mi ritrovai pronto a ritenere quell’informazione, creando quei collegamenti tra il concetto di usa e getta e il significato figurato che Marylin Manson gli aveva attribuito, rendendolo così più saliente, più profondo e e più complesso, perfetto per lasciare il segno. Il seme era stato impiantato con successo, ma il processo di crescita aveva bisogno ancora di tempo e alcuni passaggi per poter dare i suoi frutti.

L’acquisizione di una lingua, chiedetelo a chiunque ne abbia davvero mai imparata una, è fatto di miriadi di piccole storie come quella sopra descritta. La lingua si impara perché ci serve, ci interessa, rappresenta per noi qualcosa di significativo. Sta tutta intorno a noi, e gli altri parlanti sono i database viventi a cui possiamo accedere per procurarci i pezzi per costruire la nostra piccola porzione di piattaforma comunicativa da attaccare alla loro. L’importante è la motivazione e l’interazione: se ci sono quelle la lingua si svilupperà di conseguenza. Sbaglia chi si concentra sull’apprendere la lingua in sé, perché usa male le sue energie e le sue risorse. Sono gli interessi e le relazioni che vanno coltivati: la lingua che se ne dirama altro non è che un sottoprodotto, un effetto collaterale. In effetti, la lingua altro non è che il residuo stratificato e riutilizzabile delle nostre interazioni sociali.

Che poi mi sono dimenticato di chiedere come si dice “usa e getta” in francese.

Update: – ho chiesto: si dice “jetable”. Très bien.

Se bastasse una bella canzone…

Qualche tempo fa, al concerto di Brunori SAS, ho avuto un illuminazione interessante.

Assunto un approccio emergentista per lo sviluppo di competenze linguistiche (una volta esposti ad abbastanza stimoli linguistici il nostro cervello inizia a fare generalizzazioni, trova schemi ricorrenti e li rende regole), iniziare ad imparare una lingua è molto simile a provare a cantare una canzone che ci piace ma non conosciamo, mentre la ascoltiamo per la prima volta.
La ascoltiamo mentre va, e all’inizio ne ricerchiamo le regolarità.

Tipo il ritornello.
È la parte più facile perché è quella che sentiamo più spesso (cioè è saliente). È pure formulaico, cioè una cosa che “impariamo” e “usiamo” (cantiamo) così com’è senza indagarne a fondo la struttura o il suo significato nella canzone. Il valore è, specialmente ad un concerto, quello di condividere quel momento con qualcun altro. La canti perché è un modo per stabilire un contatto con gli altri che la cantano, perché la sai anche tu. Allo stesso modo il primo approccio formulaico alla lingua è semplicemente funzionale a riuscire ad interagire linguisticamente con gli altri, a stabilire un contatto, anche senza dominare tutte le regole che ci stanno sotto. (La prima volta che stabilisci un contatto linguistico ti senti un grande. Qualcuno ti tiene una porta, tu li ringrazi – danke, arigatou, abrigado, kop khun krap… – e loro ricambiano con un un sorriso, un cenno della testa, o magari una formula sconosciuta e borbottata in fretta che puoi sospettare significhi qualcosa tipo “prego”, et voilà, è successa la magia, hai stabilito un contatto linguistico, magari in Thai. Mica male. Anzi ottimo, perché si comincia proprio così.)
Ci piace la canzone, vogliamo cantarla (a.k.a. motivazione intrinseca), e star dietro al ritornello è il modo più semplice per farlo.

Le scrissi più o meno duecento poesie
La prima diceva così..

Poi vengono aspetti più strutturalmente complessi, potremmo dire più “morfosintattici”, come ad esempio il ritmo abbastanza lento che ci permette di completare un participio passato e aggiungere un’altra piccola tessera al nostro puzzle musicale, perché sentita la prima parte della parola sappiamo cosa ne seguirà. A far questo ci aiutano anche le rime, cioè il contesto.

Eh, che cosa vuoi che ti dica?
Con te sto bene anche se ormai è finiiiiii….

Altro esempio, poi, sono le collocazioni (che ritornano spesso, non a caso):

Chiedilo a Marilyn
quanto l’apparenza…

Si comincia così.
Poi la ascolteremo di nuovo, riprovando a canticchiarla. Ora un po’ sappiamo di che parla e sappiamo anche già un po’ che cosa aspettarci (cornice-frame).
Un po’ per volta, sulla base di quello che abbiamo imparato prima, inizieremo ad attaccarci pezzi, fintanto che ci rimarrà forse soltanto un piccolo “punto debole”, forse una rimache proprio non ci entra in testa. A quel punto però forse non ce ne importerà abbastanza e ci andrà già bene così (fossilizzazione), o avendo ormai acquisito il resto e avendo tutte le risorse cognitive a nostra disposizione da concentrare su quel frammentino, pignoli come siamo, completeremo l’opera.

Magari se ci capitasse di non sentirla e canticchiarla per tanto tempo ci arrugginiremmo un po’, ma basterebbe poco per rinfrescarci la memoria, e subito torneremmo “fluenti”.

Una volta imparata, poi, saremmo inoltre in grado di riproporla anche senza averla di sottofondo. Avendola cioè ormai “fatta nostra”, la dipendenza  dal contesto si allenta, fino al punto da riuscire ad influenzarlo noi stessi, come quando cambiamo le parole di una canzone per scherzarci, o come quando, dopo aver sentito usare diverse volte un’espressione, la riprendiamo e proviamo ad usarla in un certo contesto, attenti al feedback del nostro interlocutore: se va tutto liscio, probabilmente, l’abbiamo usata bene.

Per dire, le cose che mi passano per la testa pure quando sto ad un concerto fico.

 

Aggiornamento 06/07/2014:

pare che il buon Dario (o forse lo staff per lui?) abbia apprezzato il suo ruolo di musa glottodidattica:

brunorisaspreferiti

Fatelo, come esperimento, questo delle canzoni. Se ancora non lo conoscete magari potete cominciare proprio con Brunori. E visto che è pure estate sparatevi direttamente un concerto, no? Le date le trovate qui.

 

Erasmus+ supporta Tweetaliano.

Lo scorso novembre, dopo aver presentato il mio paper su Tweetaliano a Firenze, fui avvicinato da una signorina che di lì a poco scoprii essere una policy officer della Commissione Europea. Le era piaciuta l’idea di Tweetaliano e mi chiese se mi interessava promuovere il progetto attraverso canali istituzionali della Commissione. Raccolta la mandibola, io accettai. Naturalmente le cose non sono (Grazie a Tommy che mi controlla i typos) vanno MAI lisce come uno vorrebbe, e caso ha voluto che PROPRIO in questi mesi invernali la commissione abbia rinnovato tutta quella parte di sito: non era chiaro se il formato precendente per gli articoli sarebbe stato lo stesso per i nuovi, in quante lingue serviva e si sarebbe potuto tradurre, tante cose. Alla fine, però, tutto è bene quel che finisce bene, habemus papam, si è optato per un post sul profilo Facebook ufficiale di Erasmus+ (butta via…) e, lasciatemelo dire, mi sento un po’ orgoglioso di questo mio piccolo risultato:

#Daje. Ora basta con le autocelebrazioni, torno a concepire scienza. 😉

P.s. – Ancora non siete tra quelli che condividono l’italiano su Twitter? Siatelo!

 

 

Buon 25 Aprile! Di ukulele, sviluppo competenze, espressività e liberazione..

È un po’ che ci rimugino (come faccio sempre), e voglio approfittare di questo 25 Aprile per un post un po’ particolare.

Parlerò sì di lingua, infatti, ma non solo. Diciamo che ci arriviamo da una prospettiva insolita.

Per cominciare dovete sapere che io sono un grandissimo fan di Amanda Palmer, la seguo dai tempi delle Dresden Dolls e a novembre finalmente l’ho vista dal vivo a Milano con la Grand Theft Orchestra.
Proprio a Milano, inconsciamente, per la prima volta sono stato esposto al mitico ukulele.

All’epoca non ci feci più di tanto caso, però evidentemente qualcosa mi restò. Altra cosa che dovete sapere è che la mia competenza musicale, a 30 anni, sta a zero: non ho mai suonato uno strumento in vita mia, non ho mai frequentato nessuno che suonasse davvero (se non per brevi e incostanti periodi), e tutto quello che so di musica passiva, cioè di ascolto, lo so un po’ grazie a mio zio Alberto, un po’ perché mi ci sono avvicinato io, perché a casa dei miei non si ascoltava NIENTE. Se di competenza passiva stavo così, ribadisco, immaginatevi la competenza attiva, cioè la produzione.

Fatto sta che Amanda fa una cosa: nel suo ultimo album (che trovate da scaricare liberamente qui) inserisce un pezzo intitolato Ukulele Anthem, l’inno all’ukulele, e io impazzisco.

La canzone parla di come tutti abbiano il diritto ad esprimersi, e di come questo diritto vada reclamato con forza. Vale per l’ukulele, dico io, come per una lingua che stiamo imparando: la competenza si acquisisce facendo, e non bisogna vergognarsi di sbagliare.

Esiste un pregiudizio terribile sia con l’arte che con le lingue: ci hanno convinto che sia una cosa per pochi.
A scuola (e non è un caso), c’erano “quelli bravi” e poi gli altri. In alcune materie era più evidente, se ci fate caso. In storia, geografia, economia, diritto, storia dell’arte magari più o meno un po’ tutti, a seconda degli interessi, riuscivano a cavarsela. Poi c’erano la matematica, la musica, e le lingue, e lì si aprivano i divari.
Perché? Perché mentre le prime sono materie molto più basate sulla conoscenza (imparare cose), le seconde sono materie basate sulla competenza (imparare a FARE cose).

Il motivo per il quale si aprivano i divari non è, come si pensa, che ci sono persone “più portate” e persone “meno portate” (una sottile ed educatissima forma di classismo), ma che il sistema che dovrebbe insegnarcele non funziona per niente, per cui chi ha modo si organizza in maniera alternativa e sta a galla, e chi non ha modo tanti saluti! Cioè, se vieni da un ambiente stimolante in cui hai imparato a mettere in campo strategie alternative per risolvere problemi e, soprattutto, a credere in te stesso allora vai avanti, altrimenti sei carne da macello.

Io, con la musica, sono sempre stato carne da macello. E sono arrivato a 30 anni assolutamente incompente, nullo, senza orecchio, senso del ritmo, nada. Una tabula rasa. Non solo. L’essere nullo mi scoraggiava ancora di più, perché esiste quel pregiudizio di cui sopra, che è una cosa per pochi: se non ti viene rinuncia, evidentemente non è la tua cosa. Che non è esattamente l’approccio incoraggiante che favorisce lo sviluppo di competenze. Feedback negativi ma nessun interesse cooperativo e dialogico. Nessuno si pone il problema che forse anche tu, con uno strumento, avresti qualcosa da dire che potrebbe interessarli. E sei lasciato lì, a marcire. Perché le cose che ti tieni dentro alla fine marciscono, lo sai sì?

Sid Vicious played a four-string Fender bass guitar and couldn’t sing
And everybody hated him except the ones who loved him
A ukulele has four strings, but Sid did did not play ukulele
He did smack and probably killed his girlfriend Nancy Spungen

If only Sid had had a ukulele, maybe he would have been happy
Maybe he would not have suffered such a sad end
He maybe would have not done all that heroin instead
He maybe would’ve sat around just singing nice songs to his girlfriend

Ma perché mai? Chi l’ha detto? Questo approccio è completamente sbagliato. Si parte dal presupposto, erroneo, che le cose prima si imparano e dopo si fanno. Sbagliato. Le cose si imparano facendole. Nessuno di noi è nato parlando la propria lingua madre (con buona pace della grammatica generativo-trasformazionale. Amen.), ma tutti noi l’abbiamo imparata provandoci, un po’ per volta. Quello di poter imparare facendo e sbagliando (tanto) sembra sia un lusso che concediamo solo a quelli che nella nostra società chiamiamo “bambini”. E infatti da adulti generalmente smettiamo di imparare. I bambini li incoraggiamo, li giustifichiamo, continuiamo a dare loro spazio di correzione e sviluppo, poi ad un certo punto decidiamo che quelle stesse identiche persone, per fattori anagrafici assegnati un po’ a caso, non sono più degne di quelle possibilità. O un adulto le cose le sa fare, oppure lo prendiamo in giro. Davvero non ci rendiamo conto che è questo che determina o no le possibilità di continuare ad imparare?
È imperativo reagire! E tra le idee fondanti alla base del concetto di Lingua 2.0 c’è proprio questo cambio di prospettiva in materia: una lingua si impara parlando, facendo un sacco di errori e di fatica, mettendo insieme un pezzo alla volta e non scoraggiandosi, perché non esiste un altro modo, checché ne dicano lor signori. Chiunque abbia mai imparato un’altra lingua o a suonare uno strumento sa quanto fatica gli è costato. Averlo fatto da bambini, con uno strumento o con una o più lingue madri ci ha banalmente offerto un ambiente sociale più tollerante nei confronti di quel processo in cui eravamo immersi. Ma chi ha detto che da grandi non possa essere lo stesso?

So play your favorite cover song, especially if the words are wrong
‘Cause even if your grades are bad, it doesn’t mean you’re failing
Do your homework with a fork
And eat your fruit loops in the dark
And bring your etch-a-sketch to work
And play your ukulele

Ukulele small and fierceful
Ukulele brave and peaceful
You can play the ukulele too, it is painfully simple
Play your ukulele badly, play your ukulele loudly
Ukulele banish evil
Ukulele save the people
Ukulele gleaming golden from the top of every steeple

È normale che all’inizio il suono faccia schifo. E che non si riesca a mettere due parole in fila. Ma fa parte del gioco. La variabile fondamentale non è che qualcuno sia “più portato” di qualcun altro, ma che dobbiamo essere consapevoli che nisciun’ è nato imparato. Questo cambio di prospettiva cambia tutto. È difficilissimo, soprattutto perché all’inizio ci sentiremo soli e ridicoli, ma in realtà pensateci: se vedete qualcuno che si impegna ad imparare la vostra lingua, anche se non si esprime come un sommo vate, lo trovate forse ridicolo, stupido e degno di scherno? E perché qualcuno dovrebbe pensarlo di voi, allora?
Se poi a prendere in giro è qualcuno che oltretutto quella cosa non la sa fare, che valore ha? L’hai mai imparata un’altra lingua? O uno strumento? Prende in giro qualcun altro per nascondersi dietro al dito di non provarci nemmeno. Prendere in giro gli altri è un modo per distogliere l’attenzione dalla nostra stessa mancanza di coraggio.

Lizzie borden took an axe, and gave her mother forty whacks
Then gave her father forty-one, and left a tragic puzzle
If only they had given her an instrument, those puritans
Had lost the plot completely
See what happens when you muzzle

A person’s creativity
And do not let them sing and scream
And nowadays it’s worse ‘cause kids have automatic handguns
It takes about an hour to teach someone to play the ukulele
About the same to teach someone to build a standard pipe bomb
YOU DO THE MATH

So play your favorite cover song, especially if the words are wrong
‘Cause even if your grades are bad, it doesn’t mean you’re failing
Do your homework with a fork
And eat your fruit loops in the dark
And bring your flask of jack to work
And play your ukulele

Ukulele, thing of wonder
Ukulele, wand of thunder
You can play the ukulele, too
In London and down under
Play joan jett, and play jacques brel
And eminem and neutral milk ho-
Tell the children
Crush the hatred
Play your ukulele naked
If anybody tries to steal your ukulele, let them take it

Una nuova lingua, come un nuovo strumento, altro non è che un ulteriore mezzo espressivo. E sapete qual’è il bello? Che il mezzo è il messaggio, e quindi attraverso il nuovo mezzo il messaggio che riusciremo a convogliare ne verrà parzialmente influenzato: per questo si dice che una persona è tante volte tale quante sono le lingue che parla. Ogni lingua, come ogni strumento, ci permette da esprimere una parte di noi stessi che altrimenti non sarebbe mai uscita. Chiunque parli più di una lingua lo sa, ed è una sensazione fantasticamente liberatoria: si scoprono aspetti di noi stessi che magari ignoravamo, e che riusciamo ad esprimere solo tramite quella particolare lingua, e magari solo con certe persone (che poi ci sarebbe da indagare il fatto che i rapporti con le persone sono sviluppati in certe lingue ben precise, e che è difficile “cambiare lingua” con una persona con cui abbiamo un rapporto ben sviluppato, perché ci sembra ridicolo. Ma questo è roba per un altro post).

Imagine there’s no music, imagine there are no songs
Imagine that John Lennon wasn’t shot in front of his apartment
Now imagine if John Lennon had composed “imagine” for the ukulele
Maybe people would have truly got the message

Esistono dei momenti, degli strumenti, delle lingue, delle persone, degli approcci privilegiati, degli spazi di serenità che sono assolutamente perfetti per fare le rivoluzioni. In genere sono spazi marginali, a cui badano veramente in pochi, perché nessuno ci vede tutto questo interesse da sfruttare e quindi vengono lasciati stare. Figli di un dio minore, piccoli Davide sottovalutati che un giorno abbatteranno Golia. L’ukulele è la mia personalissima chiave di volta per la musica, grazie ad Amanda che me l’ha fatto scoprire. L’ukulele non è il pianoforte, non è uno strumento “serio”. È una cosa di nicchia, che fanno in quattro invasati che si scambiano spartitelli su internet e che vivono all’ombra dei chitarristi. Lo conoscete un ukulelista famoso? E un chitarrista? Visto? È perfetto. È esattamente il tipo di ambiente in cui nessuno ti rompe l’anima.

Allo stesso modo, a mio modestissimo parere, funziona l’Italiano. L’Italiano, che lingua è? L’Italiano non lo impari per il business, per quello c’è l’Inglese, il Cinese, e i Tedesco. Lingue serie. Con quelle si fanno i soldi. E poi lo parlano al massimo 150 milioni di persone al mondo (tenendo pure conto di tutta l’emigrazione che ne parla rimasugli), che te ne fai? Allora studia lo Spagnolo, o l’Arabo, che lo parlano in tanti!
L’Italiano è una lingua di nicchia. Mi verrebbe da dire di lusso ma poi sembra che non tuti se lo possano permettere, ed invece non è così. È un lusso vero, non un lusso monetarizzabile. L’Italiano si impara per chiacchierare con gli Italiani, per sviluppare rapporti e relazioni, per sentirsi in famiglia. L’Italiano è una lingua che dev’essere amata, altrimenti è difficile. Ma se la ami, beh allora non c’è difficoltà che tenga, la imparerai e la continuerai a scoprire per tutta la vita.
È per questo che l’Italiano funziona bene come Lingua 2.0, perché è una lingua basata su un approccio grassroot (anche storicamente, e anche questo mi riservo di svilupparlo altrove, come concetto), sulla motivazione intrinseca piuttosto che su quella strumentale, e in cui la funzione fàtica svolge un ruolo particolarmente centrale, per motivi socioculturali.

You may think my approach is simple-minded and naïve
Like if you want to change the world then why not quit and feed the hungry
But people for millennia have needed music to survive
And that is why I promised John that I will not feel guilty

So play your favorite Beatles song
And make the subway fall in love
They’re only $19.95, that isn’t lots of money
Play until the sun comes up
And play until your fingers suffer
Play LCD soundsystem songs on your ukulele

Quit the bitching on your blog
And stop pretending art is hard
Just limit yourself to three chords
And do not practice daily
You’ll minimize some stranger’s sadness
With a piece of wood and plastic
Holy fuck, it’s so fantastic, playing ukulele
Eat your homework with a fork
And do your fruit loops in the dark
Bring your etch-a-sketch to work

Your flask of Jack
Your vibrator
Your fear of heights
Your Nikon lens
Your mom and dad
Your disco stick
Your soundtrack to “karate kid”
Your ginsu knives
Your rosary
Your new Rebecca Black CD
Your favorite room
Your bowie knife
Your stuffed giraffe
Your new glass eye
Your sousaphone
Your breakfast tea
Your Nick Drake tapes
Your giving tree
Your ice cream truck
Your missing wife
Your will to live
Your urge to cry
Remember we’re all gonna die
So play, your ukulele

Remember we’re all gonna die, So play your ukulele e coltiva le tue capacità espressive, coltiva le tue lingue. Non importa se lo suoni male, tu suonalo: con il tempo e con l’esperienza impararai. E non ti preoccupare se non ti vengono le parole, tu cercale, e soprattutto cerca persone con le quali ti piace chiacchierare, dalle quali puoi carpire pezzetti di lingua. Le persone parlano con te per quello che hai da dire, non per come lo dici: scoprire il pensiero di qualcuno che sta imparando la nostra lingua è tra le cose fiù incredibilmente fiche che io possa immaginare. L’idea c’è nella testa di quelle persone, e stanno cercando il modo di tirarla fuori. Si mettono in campo strategie elaboratissime e geniali, si inventano parole, si creano piccoli grandi frankenstein linguistici utili solo il tempo di far passare il messaggio, perché è quello l’importante. Poi, i piccoli frankenstein che funzionano meglio li teniamo e li riutilizziamo, quegli altri si fermano lì. Ma non c’è altra via di mettersi ad incollare pezzi trovati qua e là, e credetemi, è molto divertente. E già che ci siamo, non credete più a quelli che vi dicono che le lingue, come gli strumenti, si imparano PRIMA  e si suonano POI. A parte pochissimi individui, nessuno suona o parla per esibirsi: lo si fa per comunicare, cioè per vivere.

È una liberazione, vero?

Buon 25 Aprile!

🙂

 

Yo as a Pronoun: dinamiche dal basso di evoluzione linguistica.

Oltre ad occuparmi di lingua vuole il caso che io mi interessi anche alla queer theory.
Va da se che questo articolo sull’emergere in una scuola di Baltimora di un pronome neutro, yo, invece di he e she, ha attirato la mia attenzione.
Ma la cosa più interessante, nonché motivo per il quale condivido il tutto con voi, è la dinamica con la quale pare questa innovazione linguistica, guarda un po’, è emersa:

What’s also interesting about the kids’ language is that people — mostly academics — have been trying to introduce a gender-neutral singular pronoun into the English language for about 200 years, with very little success. And then a group of kids in Baltimore just make one up and start using it.

Lingua 2.0 vince: 200 anni di tentativi top-down, per quanto le intenzioni fossero lodevoli, non sono riusciti dove invece le esigenze di un piccolo (in more than one way 🙂 ) gruppo di parlanti ha avuto successo, almeno contestuale. Il tempo ci dirà se attecchirà, ma quando le parole germogliano così, c’è da sperare bene: ormai è successo, non è più una questione di se ma di quando.

Per il momento, Bottom-up 1, Top-down 0.

(Daje!)

Convergenza di vedute

Sto leggendo Cultura Convergente di Henry Jenkins e, come dire, per farvi capire gli spunti interessanti che ci sto trovando, come posso fare?
Provo così:

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Ecco, per dire.
Magari poi ne riparliamo, però intanto volevo condividere con voi questo paragrafetto, pag 192, in Verso la rielaborazione della scuola, Cap. 5, (Perché Heather può scrivere):

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Torna? A me sì (ovvio).
Vedi, ad esempio su Ipotesi Glottodidattica 2.0

Con l’espressione “Glottodidattica 2.0” intendo suggerire un nuovo approccio alla glottodidattica basato sull’interazione e la cooperazione tra apprendenti e parlanti di una lingua target e tra apprendenti della stessa lingua straniera. Sfruttando appieno le possibilità offerte dal Web, la glottodidattica 2.0 offre finalmente l’opportunità di cogliere appieno quelle dinamiche informali fondamentali per l’acquisizione linguistica, obiettivo fuori portata prima dell’avvento del Web 2.0.

O anche già in La Rete Linguistica:

Esperimenti sul conflitto socio-cognitivo hanno inoltre dimostrato che questo è più produttivo quando viene gestito tra pari, e che se ad istillare il dubbio è qualcuno che occupa un rango più elevato (si badi bene: si parla di rango e ruoli sociali, non di competenza comunicativa o linguistica) possano addirittura verificarsi reazioni che ostacolano il processo cognitivo (Negri 2005: 61); di nuovo, sia lo sviluppo della lingua che quello del web sembrano privilegiare dinamiche orizzontali e tra pari, il cosiddetto peer to peer (p2p), già menzionato in precedenza (§ 2.3.2).

E ancora:

Il moltiplicarsi di attori interattivi e con ruoli interscambiabili sulla scena, occupati in micro-attività che hanno come punto di partenza l’interesse comune di due o più persone permetterà non solo la specializzazione anche lo sviluppo di materiali didattici pensati ad hoc per un determinato tipo di apprendente, o meglio per un determinato tipo di interesse. Tra i vantaggi dell’interazione via web, infatti, c’è quello che si manifesta quando si offre un palco locale e contestualizzato, ma allo stesso tempo potenzialmente globale, a certi argomenti. Il web permette infatti di fornire un contesto di interazione a partire da un interesse comune: piattaforme come Twitter, tramite l’utilizzo degli hashtag fanno di questo uno dei loro maggiori punti di forza.

E vabbè, ovviamente in Tweetaliano:

The 2.0 approach adopted by Tweetaliano also involves the roles of users within the community. As there is no pre-established distinction between teachers and learners, these roles are constantly and contextually re-negotiated in a functional way. The same user who has just asked a question, taking the role of learner, might, right afterwards or even at the same time, be answering someone else’s question, acting as a teacher for that particular instance. This shift from a vertical structure of preestablished and fixed roles (teachers-learners) to a horizontal one made of interactive peers is functional to a more productive management of socio-cognitive conflict, as research demonstrates.

Ecco, tanto per un antipastino.
Se interessa, stay tuned, che Jenkins è un mostro e di ciccia da mettere al fuoco ce n’è.

E scusate se ultimamente ho scritto poco; spunti ne ho diversi tra le bozze e un po’ per volta adesso ve li racconto tutti…