Bilingui digitali

[Ciò che segue giaceva sotto forma di schizzo sul mio taccuino già da diversi mesi. Mi riproponevo sempre di trascriverlo e non lo facevo mai. A rileggerlo lo trovo un po’ confusionario, incompleto, ma continuo a ritenerlo un abbozzo interessante di idea. I rimaneggiamenti che ho apportato sono minimi, ve lo do praticamente così com’è venuto, una notte, dopo una chiacchierata con un amico sulle scalette di Perugia. Giudicatelo, quindi, alla luce di ciò. Se siete critici nei confronti del concetto di beta perpetua, potete anche lasciar perdere in partenza.]

Io sono nato il 10 marzo 1984, a Cavarzere, in provincia di Venezia.

Qualche anno più tardi, Internet avrebbe fatto il suo ingresso trionfale nella società attraverso il World Wide Web, cambiando per sempre il nostro modo di comunicare in maniera così radicale come in precedenza solo il passaggio dall’oralità alla scrittura, secondo il modesto parere, era riuscito a fare.

Cambia la percezione, il ruolo della lingua di organizzare la conoscenza, i rapporti umani. In ultima analisi, cambiano gli equilibri del potere.

Questo momento di passaggio pone me e la mia generazione in una situazione molto particolare. Noi, infatti, abbiamo vissuto abbastanza a lungo nel mondo precedente al cambiamento da ricordarcelo, da capire come funzionavano le cose, da poter inferire sulle sue dinamiche così da poterle astrarre, concependo come logico anche ciò di cui abbiamo avuto solo esperienza indiretta, banalmente perché troppo giovani. Non lo abbiamo vissuto, ma lo comprendiamo e troviamo plausibile.

(Il ruolo stesso della memoria cambia!)

Allo stesso modo, eravamo abbastanza giovani per entrare nella nuova dimensione e farla nostra. Siamo la prima generazione di immigrati digitali, arrivati all’età giusta per essere bendetti da bilinguismo quasi perfetto. Non siamo tardivi, non siamo nativi: siamo i bilingui digitali.
Senza dubbio siamo tra i pochi in questa condizione. Anche qualcuno prima di noi è diventato parecchio bravo, ma la sua è ottima competenza L2, non bilinguismo. In ogni caso, il modo in cui c’è arrivato è attraverso uno dei margini della società della generazione precedente. Come per le prime giraffe, una sua casuale peculiarità ad un certo punto si è rivelata una risorsa. Per noi il discorso è diverso. Noi ci siamo proprio nati davanti, tutti. Le branchie ci sono venute spontaneamente perché eravamo pronti ad evolverci anche così, non è che già le avessimo (Devo andarmi a rivedere Baricco, in merito).

E subito dopo di noi i nativi, senza i nostri ricordi, logica, visione del mondo andato.

La nostra stretta generazione è un traghetto culturale, una cerniera tra due mondi, e questo ci carica di responsabilità, ma rappresenta anche un enorme potenziale a nostra disposizione.
Saremo, ad un certo punto, gli ultimi depositari e parlanti di quella lingua analogica, già detronizzata in quanto regina della comunicazione, superata dalla sua parziale evoluzione, ridimensionata ad alternativa possibile, specializzata in quanto maggiormente adatta a particolari ambiti.

[E per concludere, un po’ di cose che nei mesi in cui avevo ‘sta roba in mente ma non la trascrivevo mi c’hanno fatto ripensare:

Un video di Zerocalcare al Wired Next Fest 2013, in particolare al minuto 3.35 sul mix di strumenti analogici e digitali, e al minuto 5.25 sul ruolo generazionale di cerniera tra due mondi (in questo caso vissuta con un po’ di stress).
Se poi nn avete familiarità con le vignette in questione, che meritano, ecco i link:Zerocalcare – Salva ogni 5 minuti
Zerocalcare – I vecchi che usano il pc

Inoltre, l’incipit di un articolo sulle evoluzioni degli strumenti tecnologici pubblicato da Linkiesta fa riferimento a quel momento preciso in cui abbiamo iniziato a mutare, a sviluppare le branchie: quando tra le nostre medie e superiori sono arrivati i cellulari.

A questo proposito, anche se sono in conclusione, voglio condividere un aneddoto: ricordo perfettamente il momento in cui ho scoperto, assieme ad amici, gli sms.
Per me fu come se li avessimo DAVVERO scoperti noi, nel senso che sì, c’avevano messo dentro quell’opzione nei telefoni, ma non è che c’avessero pensato più di tanto e la gente la usasse davvero: l’avevamo scoperta  proprio noi. Probabilmente, per com’era il mondo all’epoca, ancora relativamente poco interconnesso, la nostra percezione era esatta, perlomeno per il mondo in cui vivevamo noi: la provincia italiana. Io e altre due amiche delle medie avevamo appena iniziato il primo anno di superiori, e dal paese natale, Cavarzere, ogni mattina prendevamo il treno (o meglio, la littorina), per andare a Venezia a frequentare l’Algarotti, istituto tecnico per il turismo: 50km circa e un’ora e mezza di treno all’andata e altrettante al ritorno. Partivamo alle 6.20 la mattina e rientravamo alle 3 del pomeriggio. Tutti gli altri andavano nel paesino vicino, corriere alle 7.30 e a casa per pranzo. Fatto sta che i nostri apprensivi e attenti genitori di provincia ci avevano munito già all’epoca dei primi modelli di telefono cellulare, perché “andate lontani” e “non si sa mai”. Le lunghe ore di treno e la curiosità verso il nuovo strumento conciliavano lo smanettamento. Ricordo perfettamente il momento in cui, esplorando il menù, mi imbattei nell’opzione “messaggi”. Apro, vengo invitato a scrivere qualcosa (o forse prima volevano il numero addirittura, trattandosi di un vecchio motorola, nn ricordo), il mio inconsapevole “hello world” negli sms. Quindi mi viene chiesto un numero. Chiedo a Deborah, o a Laura, le mie compagne di scuola e viaggi. Invio. Squilla il telefono di fronte a me. Era arrivato il messaggio. Stupore. Delirio. Eureka. Era iniziato. Poi, naturalmente, scoprimmo pure che costava, e quindi partimmo con i sopracitati squilli. In ogni caso, per noi, la rivoluzione era iniziata: in quel momento preciso, in una vecchia littorina sulla tratta Adria-Venezia. Storia.]

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